I coniugi Jonathan e Grace Fraser (Hugh Grant e Nicole Kidman) conducono una vita tranquilla a Manhattan, impegnati nelle loro professioni (oncologo infantile lui e psicoterapeuta lei) e a crescere il loro giovane figlio Henry (Noah Jupe). Durante una riunione per l’organizzazione di un evento scolastico, Grace fa la conoscenza di Elena (Matilda De Angelis), donna enigmatica e dai comportamenti insoliti, che sembra mostrare un particolare interesse nei suoi confronti.

Nazione: Stati Uniti
Anno: 2020
Episodi: 6
Piattaforma: Sky
Genere: Drammatico, thriller
Ideatore: David E. Kelley
Attori: Nicole Kidman, Hugh Grant, Édgar Ramírez, Noah Jupe, Matilda De Angelis

The Undoing è il classico prodotto divisivo, costruito con grande professionalità, per piacere a un pubblico il più vasto possibile ma che, per lo stesso motivo, non incontrerà il gusto di parte della critica, pronta a ingigantire difetti, di cui, nella realtà, soffrono un po’ tutte le serie contemporanee. Come gran parte delle produzioni targate HBO, infatti, la nuova creatura di David E. Kelley (che l’autore americano ha ricavato dal romanzo Una famiglia felice di Jean Hanff Korelitz) è caratterizzata da una qualità di fondo talmente elevata, che sminuirne a tutti i costi il valore, solo perché votata al puro intrattenimento, rappresenta un esercizio molto snob, di cui tanti spettatori faranno fatica a comprendere le ragioni. In più, di tutti i rimproveri fatti alla miniserie, ce n’è uno piuttosto paradossale (ma che nei blog di settore ha avuto una certa risonanza), utilizzato da molti recensori in maniera più che tendenziosa per giustificare il loro giudizio parzialmente negativo. In sostanza, da un po’ di tempo a questa parte, molta fiction americana viene accusata di essere eccessivamente politically correct e nel segno di garantire la perfetta parità di genere, di razza, di status sociale, di religione o di qualsiasi altra possibile causa di discriminazione, dà l’impressione di ripetere di continuo un canovaccio in cui i cattivi della storia sembrano sempre provenire dalla ricca borghesia bianca. Ora, che la società statunitense sia tuttora afflitta da gravi diseguaglianze, è sotto gli occhi di tutti, pertanto se alcune decisioni produttive fossero mosse da un tardivo rimorso di coscienza, queste non dovrebbero di sicuro rientrare tra gli aspetti da prendere in considerazione per una valutazione critica. A meno che, naturalmente, un simile trend non nasconda una semplice operazione di marketing, per estendere l’audience a un pubblico generalmente refrattario a prodotti di questo tipo. Ma, riguardo alla contraddizione di cui dicevamo, essa risiede nel fatto che, fino a qualche anno fa, le stesse accuse venivano rivolte allo show business americano per la ragione opposta: quante volte, in passato, abbiamo sentito afroamericani, ispanici, ma anche islamici ed ebrei lamentarsi di essere troppo spesso i personaggi negativi di turno? Senza dimenticare – cosa che, apparentemente, sembrano aver fatto i recensori – che il dito andrebbe puntato verso il romanzo della Korelitz, fonte di ispirazione primaria della miniserie, il cui titolo originale, tuttavia – You Should Have Known (letteralmente: avresti dovuto saperlo) – suggerisce un contenuto ben diverso della trama (oltreché la soluzione del giallo) e non un riferimento a questa presunta voglia di Hollywood di fare ammenda. La rappresentazione molto glamour dell’élite newyorkese, con tutti i suoi rituali e l’ostentazione di un benessere diffuso, è, infatti, solo un mezzo per dimostrare che chi conduce una vita invidiabile tende a sottovalutare o addirittura a non vedere il lato oscuro di chi gli sta accanto. Se nei primi episodi questo aspetto potrebbe effettivamente non essere percepito, esso appare in tutta la sua chiarezza nel finale, quando persino i mestieri scelti dagli autori per i protagonisti acquistano un loro significato. Per quanto riguarda la sceneggiatura, quindi, i rimproveri da fare a Kelley dovrebbero essere di tutt’altro tipo. Per esempio, il suo eccessivo ricorrere a lunghi epiloghi in un’aula di tribunale. Un passaggio a cui non scampa neppure The Undoing e che rappresenta un rifugio narrativo, a cui l’autore americano pare proprio non riuscire a rinunciare (e che deriva dalla sua breve attività come avvocato in gioventù), ma che in questo caso – per quanto al solito ineccepibile nella realizzazione – genera un’evidente differenza di stile tra gli episodi iniziali e quelli conclusivi. Nei primi, la vicenda diventa a tratti disturbante, volutamente confusa, persino un po’ perversa, soprattutto nelle scene che coinvolgono il personaggio di Elena Alves (una sensualissima Matilda De Angelis), rendendo lo svolgersi degli eventi molto più ansiogeno. Nei secondi, invece, la trama assume subito i tratti del thriller tradizionale, con continui ribaltamenti di prospettiva e depistaggi studiati ad arte, che non mancano di appassionare lo spettatore, senza, però, mostrare l’affascinante ambiguità della prima parte. Pur con un cambio di passo di questo tipo, tuttavia, difficilmente qualcuno avrà di che lamentarsi, perché, come accennato, gli elementi positivi della produzione prevalgono nettamente su quelli negativi. A cominciare dalla strepitosa performance del cast principale, che può vantare non solo una Nicole Kidman definitivamente tornata ai livelli di qualche anno fa (e a cui, evidentemente, giova lavorare con Kelley, al timone anche di Big Little Lies, la serie che ha segnato la rinascita dell’attrice australiana), ma anche un insospettabile Hugh Grant, il quale ha scelto di vivere la sua maturità artistica, interpretando personaggi che se a prima vista sembrano ricalcare quelli a cui ci ha abituato nei suoi lavori passati, in seguito si dimostrano essere l’esatto opposto. Per non parlare di un Donald Sutherland in forma smagliante, che non dà per nulla l’impressione di volersi ritirare dalle scene, nonostante le quasi ottantasei primavere a pesare sulle sue spalle.

Certo, la regia attenta di Susanne Bier, la fotografia un po’ scolastica di Anthony Dod Mantle e le scenografie ricercate di Lester Cohen aumentano quell’impressione di prodotto preconfezionato, di cui dicevamo all’inizio, ma finché la qualità è questa, perché lamentarsi?

VOTO FILMANTROPO


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