Michael Burnham (Sonequa Martin-Green) emerge da un wormhole e si ritrova nel 3188, dopo un salto nel futuro di circa novecento anni. Prima che il tunnel spazio-temporale si chiuda, Michael riesce a spedire indietro la tuta dell’angelo rosso, programmando la sua auto-distruzione non appena rientrata nel punto di partenza del salto. Subito dopo, l’ufficiale della Discovery scopre, con suo grande sollievo, che nel futuro la vita è ancora presente nell’universo.

Nazione: Stati Uniti
Anno: 2020
Episodi: 13
Piattaforma: Netflix
Genere: Fantascienza
Ideatore: Bryan Fuller, Alex Kurtzman
Attori: Sonequa Martin-Green, Doug Jones, Shazad Latif, Anthony Rapp, Mary Wiseman

Dopo un brillante espediente al termine della seconda stagione, che ha permesso agli autori di liberarsi di alcune incongruenze narrative (che stavano cominciando a indispettire gli intransigenti custodi della filologia trekkiana) ritroviamo l’equipaggio della Discovery parecchi anni avanti nel futuro, un’epoca decisamente più adatta a mostrare quelle innovazioni tecnologiche visionarie, che da sempre costituiscono la base del messaggio “positivista” promosso dal franchise. Ciononostante, a dispetto di qualità ormai acquisite come l’intenso sense of wonder che impregna ogni aspetto della serie, il buon ritmo con cui la vicenda procede fino all’episodio finale, i brillanti scambi di battute tra i vari personaggi e – ultimo, ma non ultimo – l’attento utilizzo degli eccellenti effetti speciali (che hanno risentito solo in minima parte del lungo lavoro da remoto causato della pandemia), la produzione pare proprio non rendersi conto di alcuni problemi, che continuano a trascinarsi fin dalla prima stagione. Per esempio, se a stento abbiamo digerito una stravaganza ingegneristica come il motore a spore (benché esso sia ormai diventato un elemento identitario della serie, tanto quanto l’allarme nero che ne preannuncia l’utilizzo) pensando che sarebbe rimasto un caso isolato all’interno di un contesto più plausibile, dobbiamo invece constatare che agli autori piace insistere con una versione un po’ naif della fantascienza, la quale, nei nuovi episodi, si palesa con l’improbabile causa scatenante del Grande Fuoco – l’evento che fa da sfondo alla stagione – o con la “malattia” di cui soffre l’ex imperatrice Georgiu. È come se gli scenari immaginifici – ma scientificamente rigorosi – della serie, stessero un po’ stretti ad Alex Kurtzman e Michelle Paradise (i due showrunner della terza stagione), più interessati a non porre limiti alla loro creatività, soprattutto se questa diventa necessaria a esaltare le specifiche peculiarità dei vari personaggi, molti dei quali, come da tradizione, fortemente caratterizzati. Un po’ la stessa ragione che determina anche un livello qualitativo piuttosto altalenante degli episodi. E tra i capitoli meno riusciti bisogna sicuramente includere quelli dedicati all’Universo dello specchio, una delle trovate più bizzarre della serie originale (e più volte riproposto negli spin-off successivi) che, se negli anni Sessanta poteva anche avere una sua ragion d’essere (d’altra parte, all’epoca, a spopolare erano i mitici telefilm di Batman con Adam West), esso appare del tutto fuori luogo in una produzione contemporanea, principalmente per gli eccessi di buonismo con cui Kurtzman e Paradise ne hanno annacquato la natura parodistica e iconoclasta. Per di più, quasi come a voler dare un indirizzo del tutto personale a questo nuovo futuro inesplorato, i due autori mettono in campo troppe sottotrame, la cui veloce risoluzione – complice il numero inferiore di episodi rispetto alle stagioni precedenti – genera una diffusa sensazione di incompiutezza. A patirne le conseguenze è soprattutto la storyline riguardante Osyraa e la Catena Smeraldo, che sembrava potesse introdurre una minaccia del calibro di Klingon e Romulani, e che, invece, a meno di ulteriori sorprese, viene messa frettolosamente da parte. Inoltre, l’introduzione di nuovi protagonisti (tra cui anche la guest star David Cronemberg) toglie inevitabilmente spazio a quelli che finora sembravano essere dei punti fermi del cast. L’esempio più eclatante è il Paul Stamets impersonato da Anthony Rapp, il cui ruolo appare ormai quasi superfluo, ma non è da meno la Jett Reno di Tig Notaro. La comica statunitense, in verità, era parsa un corpo estraneo già nella stagione scorsa, non riuscendo mai a integrare il suo umorismo irriverente e scoppiettante con quello più bonario con cui Gene Roddenberry ha caratterizzato il suo universo fin dalle origini. Nei nuovi episodi, tuttavia, le cose vanno ancora peggio, dato che al suo personaggio viene a malapena concesso qualche sporadico cameo. Il character che, invece, acquisisce una posizione, se possibile, ancora più predominante è Michael Burnham, il cui carisma è cresciuto di pari passo alla maturità attoriale della sua interprete, una Sonequa Martin-Green sempre più a suo agio nel ruolo di eroina, che beneficia anche di un nuovo look, decisamente più in sintonia con la natura ribelle di Michael. Proprio la capacità della produzione di dare vita a una protagonista così iconica (e al Saru dell’ottimo Doug Jones), fa quasi passare in secondo piano i difetti prima elencati e porta Star Trek in una posizione di netto vantaggio rispetto a Star Wars. Gli “eredi” di George Lucas, infatti, appaiono palesemente indecisi sulla strada da prendere e ancora intrappolati in un eterno sfruttamento della gloria che fu.

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