Nazione: Stati Uniti
Anno: 2017
Durata: 115 min
Genere: Biografico, storico, drammatico
Regia: Steven Spielberg
Attori: Meryl Streep, Tom Hanks, Sarah Paulson, Bob Odenkirk, Bruce Greenwood 
Voto Filmantropo:


 

 

Amareggiato dalle continue menzogne dei politici a proposito della guerra in Vietnam, nel 1971 l’analista militare Daniel Ellsberg divulga parte di uno studio segreto commissionato dall’ex ministro McNamara, che mostra come gli Stati Uniti stiano portando avanti da anni un conflitto che sanno di non poter vincere. Questi documenti, che passeranno alla storia come Pentagon Papers, cominciano a essere pubblicati prima dal New York Times, e, poi, in seguito al blocco deciso da un’ingiunzione giudiziaria, dal Washington Post, grazie al coraggio del suo editore Kay Graham (Maryl Streep) e del suo direttore Ben Bradlee (Tom Hanks).

 

 

E’ singolare il percorso compiuto da Spielberg in quasi cinquant’anni di carriera. Sebbene Sugarland Express, il suo primo lungometraggio ufficiale (il precedente Duel era nato come film per la TV), fosse un road movie atipico, che mescolava sapientemente commedia e dramma, gli inizi del regista dell’Ohio vengono soprattutto ricordati per blockbuster come Lo squalo, I predatori dell’arca perduta, Incontri ravvicinati del terzo tipo, ed E.T. Film prevalentemente d’evasione, che poco avevano a che fare con il cinema americano del periodo, più interessato a demolire i miti del West e a denunciare gli aspetti negativi della società americana. Anzi, l’enorme successo di quelle pellicole, che fecero diventare Spielberg il nuovo re Mida di Hollywood, portarono a una sorta di ostracismo della vecchia guardia, che il giovane Steven cercò invano di contrastare, attraverso film più impegnati come Il colore viola o L’impero del sole (oggi considerati dei classici, ma all’epoca praticamente ignorati dall’Academy). Negli ultimi anni, invece, si è assistito a una netta inversione di tendenza. Per quanto Spielberg non abbia rinunciato del tutto all’evasione (basti pensare a Tintin e a Il GGG, film peraltro poco riusciti), sono le pellicole di impianto più classico, e molto spesso ricavate da vicende realmente accadute, quelle su cui il regista sembra essersi concentrato di più, quasi a voler confermare la fama di maestro della cinematografia americana, al pari di un Clint Eastwood o di un Martin Scorsese, che solo pochi critici ostinati ancora non gli riconoscono. A tale filone appartiene sicuramente questo The Post, un’aperta denuncia nei confronti dei vertici della politica statunitense e, al contempo, un sentito riconoscimento verso il giornalismo d’inchiesta dei grandi quotidiani, da sempre considerato uno dei capisaldi della democrazia americana. Nelle mani di Spielberg, la bella sceneggiatura di Liz Hannah e Josh Singer (quest’ultimo non nuovo nel raccontare di argomenti simili. E’ infatti il coautore degli script di Quinto Potere e de Il caso Spotlight) diventa letteralmente il trampolino di lancio per una squadra di attori d’eccezione. Non solo il fedelissimo Tom Hanks (al quinto film con Spielberg), e la solita, strepitosa Meryl Streep, ma anche Sarah Paulson o Bob Odenkirk, volti diventati popolari in varie serie televisive, finalmente valorizzati anche sul grande schermo, e i tanti caratteristi chiamati a interpretare personaggi solo apparentemente secondari, ma in realtà necessari a comprendere fino in fondo il dipanarsi degli eventi. Il tutto accompagnato da una regia volutamente invisibile, ma mai veramente assente. Una regia che ha potuto contare ancora una volta sul lavoro di grandi professionisti (Janusz Kamiński alla fotografia, John Williams alle musiche, Rick Carter alla scenografia, Michael Kahn al montaggio), ormai indissolubilmente legati al cinema di Spielberg, quasi a costituire un autentico marchio di fabbrica dello stesso.

Se, alla fine, il film non può essere considerato un capolavoro non è tanto per l’eccesso di retorica, praticamente inevitabile con un argomento simile, ma piuttosto per una rappresentazione un po’ troppo caricaturale di alcuni protagonisti di allora (Nixon in primis) e per una verbosità un po’ eccessiva nella prima parte della pellicola. Piccoli difetti che diventano trascurabili se si pensa che nello Studio Ovale siede un presidente che si fa beffe della stampa quasi ogni giorno. Ed è molto forte il sospetto che Spielberg, in  risposta alle intemperanze di The Donald, abbia rallentato di proposito la lavorazione di Ready Player One proprio per concentrarsi sulle riprese di The Post, di sicuro l’antidoto migliore verso il veleno sparso dai tweet dell’inquilino della Casa Bianca.

 

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