Nel 1963, Henry Ford II (Tracy Letts), per tentare di rinnovare l’immagine un po’ offuscata della propria casa automobilistica, prova ad acquistare la Ferrari, economicamente in difficoltà. Allo sdegnato rifiuto del patron Enzo (Remo Girone), Ford deciderà di vendicarsi sfidando l’azienda di Maranello sul suo terreno, le corse di auto sportive.

Nazione: Stati Uniti
Anno: 2019
Durata: 152 min
Genere: Drammatico, biografico, sportivo
Regia: James Mangold
Attori: Matt Damon, Christian Bale, Jon Bernthal, Caitriona Balfe, Josh Lucas

Lode a tutti i James Mangold di questo mondo per ricordarci che Hollywood non è solo super-eroi, fantascienza e cartoni animati. Nel solco dei vari Clint Eastwood e Ron Howard (ma anche Steven Spielberg, quando la nostalgia per gli anni che furono, non lo fa tornare indietro ai temi dei suoi esordi), il regista newyorkese ci regala un film che più classico di così non si potrebbe, uno di quelli che, neanche molto tempo fa, gli studios californiani sfornavano a ripetizione e che adesso, purtroppo, bisogna cercare con il lanternino. Effetto della globalizzazione, che ha aperto a mercati più interessati ai grandi franchise? O naturale conseguenza del rapido diffondersi dello streaming? Forse entrambe le cose, o forse si tratta di una semplice evoluzione del gusto del pubblico. Sta di fatto che vedere due star come Matt Damon e Christian Bale rivaleggiare in bravura in una pellicola che, per tutti i 152 minuti della sua durata, diffonde spirito americano a tutto spiano e nella sua forma più genuina (ma senza eccessi di retorica), è qualcosa capace di entusiasmare spettatori di ogni età e origine. Mangold non è nuovo a operazioni di questo tipo: Quando l’amore brucia l’anima (pessimo titolo italiano, a cui preferiamo l’originale e ben più evocativo Walk the line), probabilmente il suo film più noto, ricostruiva la vita di Johnny Cash come solo i grandi biopic del passato sapevano fare, e mostrava un regista particolarmente abile a giocare con le regole del cinema più tradizionale. Il nostro James, però, non si è mai accontentato di rimanere ancorato a un determinato genere, per cui, negli anni successivi si è dedicato a esplorare, con esiti alterni, altri filoni, fino ad arrivare anche al cinecomic, prima con il mediocre Wolverine-L’immortale (troppo fedele alle regole della categoria) e poi, correggendo sensibilmente il tiro, con l’ottimo Logan. Forte di questo successo, il regista americano è, alla fine, tornato alle tematiche a lui più care, realizzando una pellicola dove la passione e la determinazione dei protagonisti, oltre all’immancabile abbondanza di buoni sentimenti, illuminano la scena fin dai primi minuti. Mangold, però, riesce anche in qualcosa a cui neppure il già citato Ron Howard nel suo Rush (altro bellissimo film dedicato ai motori) era arrivato: lo spettatore, infatti, letteralmente “vive” la competizione, quasi come se si trovasse al fianco del pilota in gara. In nessun’altra opera cinematografica le auto sono diventate le assolute protagoniste (trilogia di Cars a parte, ovviamente) e mai i motori hanno rombato in maniera così realistica. Il pubblico, insomma, di fatto si trova nella stessa situazione del malcapitato Henry Ford II quando, in uno dei momenti più memorabili della pellicola, Matt Damon/Carroll Shelby gli fa provare cosa vuol dire spingere alla massima potenza la nuova GT 40. 

Perfetta la scelta del cast, così come le loro performance, a partire, ovviamente, dai due protagonisti. E se Matt Damon non fa che tratteggiare, in maniera esemplare, il classico americano purosangue, più attento a portare avanti le sue idee, che a seguire le regole del business, è Christian Bale a rubare spesso la scena, con l’ennesimo personaggio irascibile e tormentato.

Qualche critico si è lamentato delle troppe licenze poetiche prese dagli sceneggiatori (per esempio, è cosa nota che, nella gara del ’66, Enzo Ferrari non si recò a Le Mans) o degli eccessi macchiettistici con cui vengono descritti gli italiani (che in questo film, chissà perché, sfoggiano quasi tutti un’abbronzatura invidiabile), ma se sul secondo punto ci sentiamo di convenire con gli altri recensori (stiamo parlando, però, di un peccato veniale, di cui è colpevole il cinema americano in generale), sul primo, invece, il giudizio ci è sembrato eccessivamente pignolo: pellicole come queste sono, per loro natura, adattamenti romanzati delle vicende reali, un po’ di fiction è inevitabile, e serve a rinforzare o a esaltare determinati passaggi, un po’ deboli dal punto di vista narrativo. Mai dimenticare, infatti, che l’obiettivo di Hollywood è, da sempre, lo spettacolo, non la pedanteria documentaristica.

VOTO FILMANTROPO: 3,5

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