Londra, 1813. La giovane Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor) è pronta per fare il suo debutto in società, un evento che genera reazioni molto diverse nelle sue sorelle. Nel frattempo, fa il suo ritorno in città Simon Basset (Regé-Jean Page), erede del Ducato di Hastings e uno degli scapoli più ambiti del Regno.

Quando nell’agosto del 2017 Netflix annunciò di aver raggiunto un accordo pluriennale con Shonda Rhimes per lo sviluppo di nuovi contenuti originali, in molti videro nella mossa dell’azienda californiana una sorta di vendetta nei confronti della Disney, rea di averle sottratto i prodotti legati ai propri marchi (che avrebbero costituito, in seguito, il pezzo forte della piattaforma della Casa di Topolino). La Rhimes, infatti, è la mente dietro a Grey’s Anatomy, Private Practice e Scandal, tutti successi del network americano ABC, uno dei gioielli dell’impero multimediale fondato dallo Zio Walt. Tuttavia, quali che fossero le reali motivazioni dietro l’operazione, resta il fatto che con l’ingaggio della cinquantenne sceneggiatrice e produttrice di Chicago, Netflix si è accaparrata una delle più influenti rappresentanti della televisione americana degli ultimi dieci anni. La Rhimes, da parte sua, non ha perso tempo, mettendosi subito al lavoro su parecchi progetti, il primo dei quali – il period drama Bridgerton, che ha affidato al suo abituale collaboratore Chris Van Dusen – è sbarcato sulla piattaforma durante le ultime feste natalizie, e, a vedere i dati di ascolto e i primi commenti, sembra aver già incontrato il gradimento di critica e pubblico (in Italia è tuttora nella top ten delle serie più viste). Il perché di questo risultato è facilmente spiegabile: senza inventare nulla, Van Dusen è riuscito a fondere in maniera brillante diversi elementi capaci di catturare l’interesse di una vasta platea, adattando nel migliore dei modi l’omonima collana di bestseller di Julia Quinn, di cui ha mantenuto inalterata la freschezza e la grande vitalità. Ad aiutarlo, l’ambientazione della vicenda, l’aristocratica Londra di inizio Ottocento, durante la cosiddetta Età della Reggenza, un periodo storico ricco di fascino, dove la vita delle famiglie altolocate era scandita da sontuosi eventi mondani, nei quali le giovani debuttanti facevano il loro ingresso ufficiale in società e si mettevano alla ricerca di un marito. Con una premessa di questo tipo, è chiaro che la trama non poteva che essere costruita attorno alle avventure amorose dei vari personaggi, nelle quali la passione carnale (che non scade mai nella volgarità o nel semplice voyeurismo) acquisisce via via sempre più spazio e la bellezza di gran parte dei giovani protagonisti viene fatta risaltare in maniera netta. A questo contribuiscono anche gli splendidi costumi elaborati da Ellen Mirojnick, che, in più, si sposano a meraviglia con gli enormi giardini fioriti e gli sfarzosi arredamenti dei palazzi, che fanno da cornice alla vicenda. Da parte loro, gli autori mettono in scena un Impero Britannico immaginario, in cui abbondano persone di colore con titoli nobiliari e ricchi possedimenti. Una singolare licenza poetica a cui la Rhimes aveva già fatto ricorso in passato, che infonde un tocco surreale alla serie, e che nasce dalla presunta discendenza africana della Regina Carlotta (la quale, infatti, nello show è interpretata dall’attrice anglo-guyanese Golda Rosheuvel). Orgoglio afroamericano, insomma, ma che ci offre la possibilità di vedere come avrebbe potuto essere l’Inghilterra di inizio Ottocento se la schiavitù fosse stata abolita parecchi decenni prima. A ogni modo, la voglia degli autori di imprimere il loro tocco personale viene ulteriormente rafforzata dalle musiche che risuonano nelle sale da ballo, che non appartengono al repertorio dei compositori dell’epoca, come sarebbe stato lecito aspettarsi, ma sono un originale adattamento classicheggiante di hit contemporanee. In più, ad aggiungere un po’ di pepe alla trama è il mistero che si cela dietro Lady Whistledown, autrice di una sorta di tabloid scandalistico ante-litteram, che fa da voce narrante alla vicenda (che in originale appartiene all’immensa Julie Andrews) e di cui nessuno conosce la reale identità. Un espediente narrativo già presente nei romanzi, che gli autori della trasposizione televisiva sono riusciti a valorizzare in pieno.

Per avere un’idea più precisa di quello che vi aspetta, quindi, dovete provare a immaginare una versione pop delle opere di Jane Austen o Charlotte Brontë, oppure, ancora meglio, una sorta di spin-off più malizioso dell’adattamento cinematografico di Ragione e Sentimento diretto da Ang Lee. Inevitabile anche il confronto con Downton Abbey, sebbene la serie ideata da Julian Fellowes fosse caratterizzata da un rapporto tra dramma e frivolezza più bilanciato, da personaggi più elaborati e da dialoghi più eleganti.

Per quanto riguarda il cast, il pubblico italiano farà fatica a riconoscere qualche volto noto, ma da anni la Gran Bretagna sforna interpreti di altissimo livello a gettito continuo, i quali riescono ad arrivare a Hollywood solo dopo essersi fatti le ossa in qualche oscura produzione inglese, oppure, all’opposto, dopo essere diventati delle star nei teatri londinesi. Nessuno, pertanto, avrà di che lamentarsi della pur folta compagnia di attori presenti nella serie. E se Bridgerton riuscirà a mantenere il successo anche negli anni a venire, non è difficile immaginare per molti di essi un futuro più che luminoso.

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