Los Angeles, 1926. la villa di Don Wallach (Jeff Garlin), dirigente della Kinoscope, è il teatro di una festa orgiastica dove ogni eccesso è consentito. Tra gli ospiti, star del cinema come Jack Conrad (Brad Pitt), giornaliste di gossip come Elinor St. John (Jean Smart) e aspiranti attrici come Nellie LaRoy (Margot Robbie). A fare in modo che tutto vada per il verso giusto e che qualunque richiesta degli invitati venga soddisfatta, c’è Manuel Torres (Diego Calva), un giovane immigrato messicano, che sogna di lavorare a Hollywood.

Nazione: Stati Uniti
Anno: 2022
Genere: Commedia, storico, drammatico
Regista: Damien Chazelle
Durata: 189 min
Attori: Margot Robbie, Diego Calva, Brad Pitt, Jovan Adepo, Li Jun Li

La conferma che Damien Chazelle fosse uno dei talenti più promettenti del cinema americano, uno dei pochi autori ancora capaci di scaldare il cuore degli spettatori e di riportarli a sedersi davanti a un grande schermo (non ci riesce più neppure Steven Spielberg che, dopo il tonfo al botteghino di West Side Story, pare destinato a un nuovo flop con il quasi autobiografico The Fabelmans), a dispetto di uno streaming ormai predominante nelle scelte del pubblico, era già arrivata con i suoi lavori precedenti. È per tale ragione che non comprendiamo cosa abbia spinto il trentottenne regista statunitense a fare il classico passo più lungo della gamba (una definizione forse ingenerosa di Babylon – il suo nuovo film – ma condivisa da buona parte della critica). Semplice ricerca della definitiva consacrazione? O una rassicurazione per sé stesso delle proprie capacità? Probabilmente la necessità di soddisfare entrambe le esigenze. Sta di fatto che una decisione del genere alla fine potrebbe anche ritorcersi contro. Intendiamoci, nelle sue oltre tre ore di durata la pellicola offre molti spunti di interesse, diversi passaggi memorabili e personaggi insoliti e originali. Tutti motivi che difficilmente deluderanno chi arriverà fino ai titoli di coda. Così come sarebbe ingiusto non sottolineare che la mano di Chazelle si palesa chiaramente in ogni piano sequenza, nelle inquadrature ricercate, nel gusto un po’ barocco di alcune scenografie e nell’insuperabile utilizzo delle musiche. Caratteristiche che fanno della rievocazione della Hollywood di fine anni Venti (impagabile, tra le altre cose, la messa in scena della presunzione senza limiti e dei vezzi autoriali di vari registi dell’epoca, incapaci di distinguere tra arte e show business), che occupa tutta la prima ora, la parte più riuscita e veramente imperdibile del film. Già in questi passaggi, però, comincia a evidenziarsi come, nel tentativo di rendere omaggio ad alcuni maestri del cinema, l’autore di Whiplash e La La Land abbia inconsapevolmente annacquato il suo stile mischiandolo a quello dei suoi mentori, con la conseguenza di perdere spesso in autenticità e incisività. Difficile non notare, per esempio, che il grottesco e smodato baccanale iniziale non sembri una versione scorretta (quasi Kubrickiana, ci verrebbe da dire, ma con l’irriverenza beffarda di Tarantino) dei giocosi e kitschissimi party di Baz Luhrmann, così come la scena che chiude il film non trasformi i personali capisaldi cinematografici di Chazelle in una bizzarra “parafrasi” del lisergico finale di 2001: Odissea nello spazio. Tuttavia, è la scrittura nel suo complesso il vero tallone di Achille di Babylon. Un difetto che emerge prepotentemente nella seconda parte della pellicola, quando la farsa e la folle goliardia dell’inizio, vengono sostituite dal melodramma e dalla malinconia. La trama si fa scontata e non bastano l’ultimo coup de théâtre di Nellie LaRoy o la fulminante apparizione del gangster James McKay – un imprevedibile Tobey McGuire – a renderla meno banale. In più, la frustrazione e le difficoltà incontrate con l’avvento del sonoro da alcune star del cinema muto, che diventano progressivamente i temi portanti del film, sono argomenti affrontati molte volte in passato e con un esito indiscutibilmente migliore. Oltretutto, rimane forte l’impressione che tra le cause di queste cadute di tono ci sia anche la decisione di aver voluto mettere troppa carne al fuoco nel soggetto. In proposito: non che fosse giusto trascurare il razzismo o il perbenismo che ancora permeava l’America dell’epoca, tanto da portare gli studios a scelte radicali e controverse, che avrebbero caratterizzato l’ambiente cinematografico fino a pochi anni fa, ma si tratta di approfondimenti che avrebbero meritato un palcoscenico più ampio e non la riduzione a semplice corollario della storia principale. A farne le spese sono, come prevedibile, i protagonisti di questi intermezzi, il jazzista di colore Sidney Palmer e la cantante di cabaret Fay Zhu, che, nonostante l’innegabile bravura degli interpreti, non riescono quasi mai a imporre il loro ruolo all’interno del racconto, arrivando pure a togliere spazio vitale ai personaggi più importanti e a creare un po’ di confusione negli spettatori.

Da applausi, invece, il resto del cast, a partire da Brad Pitt, abilissimo nell’adeguare i toni e le sfumature della sua recitazione, quando il suo personaggio (vagamente ispirato all’attore John Gilbert), da irresponsabile e impenitente mascalzone, ebbro del suo successo, muta rapidamente in un uomo disilluso e avvilito. Molto bene anche Margot Robbie, malgrado alcuni eccessi di Nellie LaRoy ricordino un po’ troppo quelli di Harley Quinn. La vera sorpresa, è, però il semisconosciuto Diego Calva, noto in Europa e USA unicamente per la sua partecipazione a Narcos: Messico, il cui personaggio è il reale protagonista del film e il solo del quale si riesca ad apprezzare una concreta evoluzione e una piena maturazione. L’attore messicano è bravissimo nel lasciar trasparire l’amore e l’entusiasmo di Manny per il mondo del cinema. Così come non mancano di spontaneità i suoi sentimenti per Nellie o la fierezza con cui accoglie la sua scalata agli studios. 

Un biglietto da visita importante, insomma, che confidiamo il buon Diego saprà impiegare a dovere.

Dicevamo nell’introduzione che l’azzardo di Chazelle potrebbe costargli caro. In effetti, i risultati al box office di Babylon sono, finora, piuttosto deludenti. Difficile immaginare un’inversione di tendenza nelle settimane a venire, anche perché agli ultimi Golden Globe il film è stato premiato soltanto per la colonna sonora, facendo presagire un esito non dissimile ai prossimi Oscar. Questo significa nessun potenziale traino da sfruttare per raggranellare almeno i soldi spesi nella lavorazione (circa 80 milioni di dollari) e un futuro molto fosco non solo per la carriera del giovane regista, ma pure per ogni produzione ad alto budget che non preveda supereroi, cartoni animati, Jedi e abitanti di Pandora.

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