Il 27 luglio del 1996, nel corso delle celebrazioni per i Giochi Olimpici di Atlanta, Richard Jewell (Paul Walter Hauser), durante il suo turno come guardia di sicurezza al Centennial Park, scopre uno zaino sospetto, che si rivelerà contenere una bomba. Grazie al suo tempestivo ritrovamento, l’esplosione dell’ordigno causerà poche vittime. Ma dopo essere stato acclamato come un eroe, Richard verrà accusato da stampa e FBI di essere lui l’ideatore dell’attentato.

Nazione: Stati Uniti d’America
Anno: 2020
Durata: 129 min
Genere: Drammatico
Regia: Clint Eastwood
Attori: Paul Walter Hauser, Kathy Bates, Sam Rockwell, Olivia Wilde

Recentemente, parlando di Le Mans ’66 – La grande sfida, abbiamo inserito Clint Eastwood nella lista dei pochi registi rimasti a tenere alta la bandiera della Hollywood dei tempi d’oro, un’epoca in cui per portare il pubblico in sala non era necessario ricorrere a effetti speciali strabilianti o a roboanti scene d’azione. Difatti, dopo essersi fatto le ossa con alcuni film di genere, che, in qualche modo, si riallacciavano alla sua carriera d’attore (in primis il western e il poliziesco), il regista californiano ha progressivamente virato verso altre direzioni e, soprattutto negli ultimi anni, ha preferito raccontare storie più semplici, dove i protagonisti sono, di frequente, persone comuni, le cui vicende (reali o immaginarie che siano) possono essere prese a modello per far emergere le contraddizioni dell’America di oggi. 

Richard Jewell rientra perfettamente in questa categoria, ma anche il precedente The Mule ne faceva parte, sebbene questo nuovo lavoro mostri più di una similitudine con una pellicola di tre anni prima, Sully, tanto che i due film potrebbero essere quasi considerati due capitoli della stessa opera: in entrambi, infatti, il tema portante è la cecità di anonimi funzionari delle istituzioni americane che, in nome di un ottuso senso del dovere, trascinano nella polvere chi, fino a poco tempo prima veniva, giustamente, acclamato come un eroe. Arrivato alla soglia dei novant’anni, quindi, il regista americano non sembra essersi ancora stancato di far sentire la sua voce. Anzi, con una prolificità da far invidia persino a Woody Allen (di cinque anni più giovane), continua a portare avanti non solo la sua idea di cinema, ma anche la visione che la sua generazione ha dei valori fondanti della nazione. L’apparente accanimento del regista/attore in proposito è, in realtà, frutto del disincanto che arriva in tarda età: il nostro Clint è tuttora convinto che ciò che rende l’America un grande paese non sia l’operato di poche personalità fuori dal comune, bensì l’insieme di tutte quelle persone, le cui azioni non sono dettate da qualche oscuro secondo fine, ma piuttosto dal senso del dovere, dall’orgoglio di indossare un’uniforme, dal voler servire il proprio paese o, semplicemente, dal voler fare il proprio lavoro nel miglior modo possibile. Una visione forse un po’ ingenua, che, però, Eastwood (di cui sono note le simpatie repubblicane) è convinto di avere il dovere di trasmettere ai più giovani, costantemente attratti dall’effimero e sempre più lontani da riferimenti morali di un certo peso. Richard Jewell è, quindi, un film eastwoodiano al 100%, tanto che, se qualcuno dovesse vederlo senza conoscere il nome del regista, riuscirebbe a intuirlo già dopo poche scene. Un giudizio di questo tipo, che potrebbe quasi suonare come una critica, è, in realtà, una semplice attestazione di stima verso un autore che è sempre rimasto ancorato alle sue idee: pur immaginando dove porteranno gli eventi, infatti, e pur avendo la certezza che, alla fine, la verità verrà ristabilita, non si ha per niente voglia di pensare a uno sviluppo narrativo diverso, anzi la genuinità dei film di Eastwood è così contagiosa da non desiderare mai di assistere a un finale meno prevedibile.

Per quanto riguarda gli attori, Paul Walter Hauser si cala nella parte del protagonista con impegno, anche se, a volte, la sua ingenuità sembra un po’ troppo di maniera, e il suo personaggio manca un po’ di espressività. Molto meglio Kathy Bates, e, soprattutto, l’ottimo Sam Rockwell, ormai decisamente tornato al grande cinema dopo il meritatissimo Oscar per la sua performance in Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Del cast di contorno, da segnalare, in negativo, Olivia Wilde: la sua giornalista d’assalto, interessata solo a fare di tutto per ottenere uno scoop è, per lunghi tratti, troppo stereotipata. Sicuramente la responsabilità di rendere il personaggio così sgradevole deve essere condivisa anche con il regista e con lo sceneggiatore Billy Ray (che ci propinano, nel finale, persino una sua melodrammatica quanto inverosimile redenzione), ma l’attrice è eccessivamente zelante nel far apparire la sua Kathy Scruggs come il nemico numero uno, con una recitazione troppo sguaiata e spesso scomposta. Tra l’altro, le polemiche che sono seguite alla rappresentazione della giornalista nel film (che è morta di overdose nel 2001), sembrano essere alla base dello scarso successo che la pellicola sta avendo in terra americana (sebbene, anche nel resto del mondo le cose non stiano andando meglio). Speriamo solo che questo insuccesso non segni la fine della carriera di Eastwood: infatti, anche se bisogna riconoscere che con Richard Jewell il regista non abbia dato il meglio di sé (il film vive di pochi sussulti, pur con una direzione più che professionale, che non cade quasi mai di tono), siamo sicuri che il vecchio Clint abbia ancora molti assi nella sua manica, e sono in molti a pensare che sarebbe davvero un peccato non avere l’opportunità di vederli.

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