Dopo aver tentato di suicidarsi – senza però riuscirci – Thomas (Cillian Murphy) apprende che dietro il mancato assassinio di Oswald Mosley (Sam Claflin), si nascondono gli uomini del Capitano Swing (Charlene McKenna), responsabili anche dell’uccisione di Polly (Helen McCrory). Al funerale di quest’ultima, Michael (Finn Cole) giura vendetta nei confronti di Thomas.

Nazione: Stati Uniti
Anno: 2021
Genere: Storico, gangster, drammatico
Piattaforma: Netflix
Episodi: 6
Ideatore: Steven Knight
Attori: Cillian Murphy, Helen McCrory, Paul Anderson, Annabelle Wallis, Sam Neill, Sophie Rundle, Finn Cole

Inutile girarci attorno: quando una serie che ha entusiasmato critica e pubblico arriva alla sua stagione finale, raramente riesce a regalare le stesse emozioni di quelle precedenti. Sarà perché gli autori, pur sforzandosi di concludere il loro lavoro in maniera originale e sorprendente, si dimostrano poco abili nel gestire una trama che negli anni ha preso troppe direzioni diverse. Oppure, più semplicemente, perché è la creatività che comincia a latitare, specialmente se si è afflitti da una comprensibile stanchezza a trattare i soliti temi. Ma, quali che siano le ragioni, non c’è dubbio che esattamente come successo per altre produzioni molto amate come Lost o Il Trono di Spade, anche Peaky Blinders, alla fine, non è stata in grado di mantenersi al medesimo livello dei primi episodi. È vero che i continui stop determinati dal Covid o – ancora di più – l’improvvisa scomparsa di Helen McCrory, potrebbero aver avuto un’influenza negativa sull’esito finale. Tuttavia, rimane forte la sensazione che a penalizzare la serie abbiano contribuito soprattutto scelte di sceneggiatura poco efficaci. Tra queste, la prima a risultare evidente è l’eccessivo spazio lasciato al misticismo gitano, che oltre ad appesantire sensibilmente lo scorrere degli eventi, ha reso pericolosamente labile il confine tra realtà e fantasia, il quale – escludendo qualche intermezzo onirico e un po’ di folklorismo magico delle stagioni scorse – non era mai stato oltrepassato in maniera così netta. Poi, come se ciò non bastasse, la gestione dei comprimari è sembrata molto discutibile: alcuni di loro – apparentemente determinanti nei capitoli precedenti – vengono liquidati nell’arco di poche scene (vedi i militanti dell’IRA, per esempio), altri, invece, perdono progressivamente di importanza, girando a vuoto per gran parte degli episodi (il caso più eclatante è Oswald Mosley, che essendo una figura storica di un certo peso si è rivelato meno facile da “manovrare” rispetto alla stagione passata). Altri ancora, infine, sono parsi delle aggiunte poco funzionali alla trama, rendendola di fatto ulteriormente spezzettata e tortuosa (ci riferiamo, in particolare, all’improvvisa comparsa di Duke Shelby e di Jack Nelson). Comunque, almeno per quanto riguarda quest’ultimo punto, forse si tratta di un semplice espediente per inaugurare nuove linee narrative, che verranno riprese – e quindi presumibilmente risolte – nel già annunciato lungometraggio dedicato alla gang di Birmingham, il quale dovrebbe anche rappresentare la reale conclusione della serie. Se così fosse, però, allora diventa davvero poco comprensibile il doppio finale con cui termina l’ultimo episodio che – colpi di scena pretestuosi a parte – sembrava voler chiudere definitivamente con le vite degli attuali protagonisti.

Ciononostante, a dispetto di questi innegabili difetti, la regia di Anthony Byrne – pur con le consuete derive barocche, a omaggiare il cinema di John Woo – si è confermata solida e con il giusto ritmo e la scrittura di Steven Knight è rimasta ben al di sopra di quella di molte delle serie oggi in circolazione. Senza considerare le performance del cast, dove Cillian Murphy dimostra ancora una volta di aver trovato in Thomas Shelby il character più importante della sua carriera. Inoltre, lo spazio (incolmabile) lasciato vuoto da Polly viene riempito quasi per intero da Ada (dell’ottima Sophie Rundle), poiché la dipendenza dall’oppio di suo fratello Arthur, limita significativamente l’impatto di quest’ultimo sulla vicenda (si ricordano solo un paio di passaggi realmente degni di nota). In verità, per Ada si è trattato più di un ritorno che di un effettivo cambio di ruolo, dato che nelle prime stagioni la sua presenza aveva maggiormente contribuito all’economia della serie, per defilarsi in seguito al sopraggiungere di nuovi scenari e di nuovi protagonisti non meno accattivanti, a partire, naturalmente, da Michael, il figlio di Polly. Costui – interpretato con notevole vigore da Finn Cole – diventa un personaggio cardine nel finale, ma il modo nel quale si compie il suo destino indica con chiarezza la frettolosità con cui gli autori hanno voluto concludere alcune delle sottotrame più importanti. È giusto, poi, segnalare il perfetto lavoro di caratterizzazione fatto con Lizzie, alla quale presta sempre il volto l’intensa Natasha O’Keeffe. Figura malinconica e oggetto di continue umiliazioni, riesce finalmente a riscattarsi nell’ultimo episodio e, al di là dell’inevitabile tocco melodrammatico, tale passaggio è forse l’unico dove le scelte di Knight ci appaiono veramente condivisibili. A ogni modo, se c’è un personaggio che, da solo, giustifica la visione della serie questo è Alfie Solomon. Sebbene, come di consueto, gli vengano concessi soltanto un paio di cameo, le divertenti scaramucce verbali tra lui e Thomas sembrano, di nuovo, un intermezzo surreale, necessario a stemperare la drammaticità degli eventi, al quale avremmo sinceramente voluto che fosse riservato più spazio. Oltretutto, crediamo che al suo interprete – il bravissimo Tom Hardy – non dispiacerebbe affatto tornare a vestirne i panni. Cosa che potrebbe pure avverarsi, considerando che, a parte il film di cui abbiamo già detto, si vocifera della possibile messa in produzione di vari spin-off legati ai Peaky Blinders. E se uno di questi dovesse essere dedicato all’eccentrico gangster ebreo, allora forse l’uscita di scena un po’ sottotono della famiglia Shelby non ci apparirà così amara.

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