Nazione: Libano
Anno: 2018
Durata: 126 min
Genere: Drammatico
Regia: Nandine Labaki
Attori: Zain Al-Rafeea, Kawthar Al Haddad, Fadi Kamel Youssef
Voto Filmantropo:

Zain (Zain al-Rafeea) è un giovane libanese, non ancora adolescente, che si trova in carcere per aver pugnalato un uomo. Durante la prigionia decide di fare causa ai suoi genitori, colpevoli, a suo dire, di averlo fatto nascere, condannandolo, così, a vivere di stenti.

Era dal lontano 2011 che la brava regista libanese Nadine Labaki mancava dal grande schermo. Già allora molti spettatori, memori del suo bellissimo esordio di quattro anni prima con Caramel, trepidavano nell’attesa di rivederla ancora dietro la macchina da presa. Il film di quell’anno – E ora dove andiamo? – era un tentativo di mostrare al resto del mondo l’assurda situazione politica libanese, dove le cariche statali, per non incorrere in sanguinosi scontri tra la popolazione (che hanno anche determinato una lunga guerra civile), devono essere equamente suddivise tra le varie confessioni religiose.  La Labaki riuscì nel suo intento, trasformando le vicende reali in una sorta di fiaba dai risvolti oscuri, senza nascondere nulla o senza astenersi dal lasciar trasparire le sue idee, ma evitando pesantezze narrative di qualsiasi tipo, che avrebbero, inevitabilmente, allontanato parecchi spettatori, poco interessati al suo paese.

Cafarnao è un film diverso. All’immaginazione del pubblico viene lasciato molto poco e l’orrenda verità sulla vita nei quartieri poveri di Beirut ci viene mostrata senza sconti: un inferno popolato da persone orribili, interessate solo al proprio tornaconto, o costrette ad atti ignobili pur di garantirsi la sopravvivenza, dove le prime vittime sono, inevitabilmente, i bambini. E’ su di essi che la Labaki concentra la sua attenzione, a partire dal giovane, straordinario, protagonista, uno dei tantissimi attori non professionisti che hanno recitato nella pellicola. Zain al-Rafeea ha, davvero, provato sulla sua pelle cosa significa vivere in estrema povertà: prima di essere scelto per il film, ha vissuto in un campo profughi alle porte di Beirut, senza avere la possibilità di andare a scuola (ha cominciato a leggere e a scrivere dopo aver ottenuto asilo politico in Norvegia, grazie al successo della pellicola), riuscendo, comunque, a imparare la sua parte. La sua odissea nella Beirut più miserabile, è un colpo al cuore, che lo spettatore rivive nel lunghissimo flashback che fa da sfondo al paradossale processo di cui è responsabile. Tra i pochi attori professionisti c’è la Labaki stessa, che, generalmente è sempre la protagonista dei suoi film, ma che qui si ritaglia una parte secondaria (è l’avvocatessa Nadine). 

Accolta con un’ovazione al Festival di Cannes del 2018 (dove ha vinto il Premio della giuria), la pellicola è poi stata candidata ai Golden Globe e agli Oscar come miglior film straniero (in entrambi i casi è stata sconfitta da Roma di Alfonso Cuaron), così come ad altri importanti premi nel resto del mondo. In Italia, invece, diversi critici hanno, inspiegabilmente, criticato la Labaki, rea, secondo loro, di aver provato a scimmiottare lo stile di Kiarostami e dei fratelli Dardenne (se non addirittura di De Sica in Ladri di biciclette) solo per cercare di farsi riconoscere come autrice impegnata, mentre, nella realtà, il suo film sarebbe poco più che un melenso melodramma, dove, furbescamente, i primi piani dei bambini in lacrime servirebbero soltanto a indurre gli spettatori a commuoversi. Niente di più falso, a nostro avviso. Forse alla regista libanese si può rimproverare di aver voluto affrontare troppi temi nello stesso film (le terribili condizioni in cui vivono i bambini nei quartieri poveri di molte città mediorientali, l’ostacolo delle frontiere, il sogno di poter fuggire in un paese migliore) dando alle volte l’idea che esso proceda in maniera un po’ incoerente.

Un piccolo difetto ammesso dalla Labaki stessa, che ha voluto intitolare il film Cafarnao proprio per questo motivo (Cafarnao, infatti, è il nome della città della Galilea dove Gesù inizio a predicare, generando molta confusione, a causa della moltitudine di persone che accorse ad ascoltarlo), ma che non può far passare come artificiale, la genuina intenzione dell’autrice di mostrarci, in tutta la sua drammaticità, la realtà del suo paese. Una realtà, che, purtroppo, troppo spesso l’Occidente fa finta di non vedere. Il Libano, infatti, non è un paese in guerra, quindi ai suoi migranti non spetta lo status di rifugiati (che permetterebbe loro di entrare legalmente nel nostro continente). Pertanto, è solo grazie a film come questi, se esiste ancora la possibilità di capire chi siano, veramente, i disperati che si accalcano sui barconi del Mediterraneo. Senza di essi, avremmo, davvero, scarse speranze di riuscire a smascherare i menzogneri comizi dei sovranisti di tutta Europa.

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