Poco tempo dopo il massacro di Westworld, Dolores (Evan Rachel Wood), ormai libera di muoversi nel mondo reale, tenta di avere accesso alla Incite e alla sua sofisticatissima intelligenza artificiale Rehoboam. Nel frattempo, Bernard (Jeffrey Wright) è diventato un ricercato e Maeve (Thandie Newton) si risveglia in quello che sembra un altro parco a tema della Delos.

Nazione: Stati Uniti
Anno: 2020
Episodi: 8
Piattaforma: Sky Atlantic, HBO
Genere: Drammatico, fantascienza, thriller, western
Ideatore: Jonathan Nolan, Lisa Joy
Attori:
Evan Rachel Wood, Tessa Thompson, Tandie Newton, Aaron Paul, Jeffrey Wright, Vincent Cassel, Ed Harris

Morto un Westworld se ne fa un altro. Questo, in estrema sintesi, potrebbe essere il motto per la terza stagione della serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy. Abbiamo aspettato parecchi mesi prima di capire verso quale direzione i due autori avrebbero portato la loro creatura, dopo che il finale della stagione precedente aveva lasciato pochi dubbi sul fatto che il nuovo scenario non potesse coinvolgere, ancora una volta, il parco robotico della Delos (che, comunque, non è del tutto assente). Un salto nel buio, che poteva condurre a un totale stravolgimento delle premesse iniziali dell’opera, ma il cui esito, invece, è risultato più che soddisfacente sotto diversi aspetti. Molti critici, tuttavia, hanno lamentato una caduta di tono della sceneggiatura, che avrebbe abbandonato i sofisticati percorsi filosofici degli episodi passati, per privilegiare troppi momenti di azione pura, tanto che qualcuno è arrivato addirittura a considerare i nuovi episodi quasi un plagio di Matrix. Ebbene, il cambio di registro è evidente, così come è innegabile qualche piccolo omaggio al film dei (all’epoca!) fratelli Wachowski, ma che queste caratteristiche siano da considerare un difetto è, francamente, tutto da dimostrare. Innanzitutto, il modo ingegnoso in cui Nolan e la Joy sono riusciti a riproporre la discussione sul libero arbitrio, spostandolo dai robot agli esseri umani, è un chiaro segnale della solidità delle loro idee su come proseguire la serie. Anche perché, se nelle prime due stagioni gli esseri artificiali erano stati usati in maniera metaforica, per rappresentare un’umanità contemporanea, apparentemente inconsapevole della progressiva perdita della propria capacità di scegliere, in questi nuovi episodi l’argomento viene affrontato in maniera diretta ed esplicita, senza più alcun filtro. Inoltre, sebbene la complessità della trama si sia ridotta, non mancano le contorsioni dell’intreccio che, a parte qualche occasionale caduta di tono, non finiscono mai di ammaliare spettatori in cerca di un intrigante disorientamento visivo. Senza considerare che la perdita di un personaggio affascinante come Robert Ford è stata in gran parte compensata dall’arrivo di Engerraund Serac. Vincent Cassel non è Anthony Hopkins, ma l’attore francese riesce lo stesso a infondere carisma e personalità in questo magnate dalle risorse infinite, capace di arrivare a manipolare l’umanità intera. Abbiamo trovato, infine, particolarmente suggestiva la trovata di scandire ogni capitolo con l’immagine algida di due dischi sovrapposti (che, poi, si scoprirà essere la proiezione dell’orologio di Serac), uno bianco dai contorni regolari, che copre quasi per intero il secondo, di colore nero, il quale, però, risulta sfrangiato, come se volesse prendere il sopravvento sul primo: un inquietante messaggio, in cui le possibili decisioni indipendenti prese dall’umanità o qualche comportamento fuori dalle regole vengono  identificati da Rehoboam come semplici “divergenze”, a cui bisogna porre rimedio il prima possibile per evitare che il mondo vada fuori controllo. 

Cassel a parte, passando al resto del cast, Evan Rachel Wood e Thandie Newton, ormai protagoniste indiscusse della serie, si lanciano in una gara di bravura in cui è difficile trovare una vincitrice. Forse, nel finale, è la Wood a riuscire a salire sul livello più alto del podio, grazie anche al suo personaggio, in apparenza una fredda calcolatrice e una stratega perfetta, ma, nella realtà, un essere artificiale capace di dare uno scopo preciso alla propria vita: un destino, d’altra parte, inevitabile, che deriva dall’innaturale bagaglio emozionale donatole dai suoi programmatori. 

Tolti gli attori principali, bisogna dire, onestamente, che pressoché tutti i ruoli restanti, rappresentano la nota dolente di questa stagione. Innanzitutto, nonostante la consueta ottima performance di Ed Harris, il suo personaggio sembra quasi superfluo all’interno della trama, tanto che gli autori, non sapendo come gestirlo, decidono di riservargli uno spazio decisamente inferiore rispetto agli episodi precedenti, per di più in passaggi piuttosto deboli dal punto di vista narrativo. Che dire, poi, di Ashley Stubbs? La rivelazione della sua vera natura al termine della seconda stagione, aveva fatto immaginare chissà quali sviluppi, ma la sua figura, in realtà, non risulta praticamente mai determinante: una semplice comparsa e niente di più. La vera delusione è, però, uno dei nuovi protagonisti di quest’anno, l’ex militare Caleb Nichols che, complice anche un Aaron Paul completamente fuori parte, non riesce praticamente mai a suscitare l’interesse del pubblico. Un inspiegabile passo falso degli autori, che non sono riusciti a dare al personaggio l’alto profilo che era probabilmente nei loro programmi. Paul gira a vuoto in quasi tutte le scene che lo coinvolgono e il suo sguardo perso somiglia molto a quello di molti spettatori, alquanto perplessi dalla sua sciatta interpretazione e dalla poca incisività del suo personaggio.

A ogni modo, pur con questi difetti, verosimilmente dovuti al drastico cambio di prospettiva della trama, Westworld resta uno dei migliori prodotti televisivi degli ultimi anni e, viste le capacità della coppia Nolan-Joy, possiamo affermare con convinzione che le sorprese (in parte preannunciate dalle due scene extra nei titoli di coda dell’ultimo episodio) sono ben lontane dall’essere finite

Voto Filmantropo:


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